solo un racconto per il Natale

Solo un racconto
C’è un aneddoto che spesso ricorreva tra i ricordi di mia nonna ogniqualvolta si parlava delle crudeltà di un popolo piuttosto di un altro durante la seconda guerra mondiale. Si sa che i ricordi lontani diventano sempre più vivi e ricchi di particolari quando si invecchia, mentre la mente si annebbia al pensiero delle vicende quotidiane, ormai di poco valore e piene di tristi memorie senza entusiasmi.
Invece la gioventù ormai passata diventa un modo per appigliarsi ancora alla vita, anche se il ricordo è legato ad un momento tragico, crudele e spaventoso.
Lo raccontava come se fosse avvenuto ad una amica, ma io sapevo che in realtà era una vicenda che ancora l’angosciava perché la protagonista era stata sua figlia, poi mia madre.
Allora si andava in bicicletta, le automobili erano poche anche se l’industria bellica faceva passi da gigante proprio nella comunicazione. Le strade erano sicure, o meglio, brutte, non sicuramente asfaltate, ma certamente non pericolose in quanto la velocità o la guida in stato di ubriachezza non erano ancora da annoverarsi tra i problemi dei giovani. L’unico grande problema era la guerra stessa, i bombardamenti, gli agguati, le fucilazioni.
La sua amica, dicevo, andava in bicicletta al paese vicino dove c’erano i suoi nonni. Una pedalata usuale, nel pomeriggio all’inizio dell’estate quando ancora pedalare è un piacere, una gradevole passeggiata. Per la verità non era sola, c’era un’amica con Lei, la sua vicina di casa a volte compagna di svago.
Le due vanno a far visita ai loro vecchi: quattro chiacchiere e poi il ritorno quando ancora non fa buio, e non c’è il coprifuoco.
Fuori dal portone, la scena che si presentava era ben diversa da quella dell’arrivo, un pomeriggio assolato e la piazza semideserta. La gente scappava, si sentivano comandi secchi e urla confuse. Un fuggi fuggi generale stava ad indicare una sola cosa: le truppe nemiche avevano preso degli ostaggi dopo un attentato ad un loro convoglio e stava per esserci la loro fucilazione.
Ma ne mancavano ancora all’appello.
«Anche voi, voi due, qui!» disse una voce. La lingua era diversa, ma il tono con cui le parole erano state pronunciate non lasciavano adito a dubbi. Come anche i sue soldati venuti per afferrarle.
Indiscutibilmente anche loro dovevano essere annoverate tra quegli ostaggi, ignare di ciò che era realmente successo, “vittime innocenti” come di solito vengono definiti sui giornali i morti all’indomani di un crimine di guerra. Ma intanto soprattutto vittime.
Vengono fatte salire su per una scala.
Qui le pause di mia nonna si facevano più angoscianti: le immagine erano fresche, troppo, per non destare ansie. La commozione nel raccontarle a volte prendeva forma di risolini che volevano presagire un lieto fine se il mio sguardo faceva intravedere un po’ di paura. Altre volte invece avevano il sapore di un racconto giallo, come quei telefilm che si guardano in tv per avere un po’ il gusto dell’avventura, ma senza troppe angosce, anzi con la sicurezza di una rassicurazione finale.
Quella storia l’avevo già sentita, e i miei occhi già abituati alla violenza dei film di guerra, ma il plotone di esecuzione che prendeva forma davanti ai miei occhi mi dava sempre un disagio e un senso di panico non trascurabile.
«Documenti e lascia passare», la voce tradisce l’accento straniero, ma le parole sono comprensibili. Anzi, troppo chiare, come la situazione in cui si trovano.
Forse però la gioventù in quei momenti aiuta…o meglio l’incoscienza.
Di nuovo al piano di sotto dell’edifico che normalmente doveva essere il municipio ma ora si era trasformato in un campo militare.
E mentre si scendono quelle interminabili e scomode scale di pietra, spunta il volto di un soldato giovane, esile. Era solitamente di stanza nella stessa città dove “l’amica” di mia nonna viveva. Si conoscevano, si vedevano più che altro, durante alcune manifestazioni, soprattutto al sabato quando c’era l’ora di ginnastica per tutti i giovani della città.non era straniero, probabilmente si era arruolato tra le milizie che stavano con quello che ora era il nemico.
«Cosa fate qui? Non dovete rimanere! Scappate!»
«Ma come? Ci sono soldati dappertutto. Ci hanno preso i documenti»
«Per di qua…quella porta. C’è confusione, non vi vedranno. Fate come vi dico»
E le due ragazze scappano da quella porticina, raggiungono le biciclette abbandonate sulla strada e scappano….di lontano, ormai a mezza strada, quando la pedalata si era fatta più lenta dopo l’affanno iniziale sentono degli spari e delle urla. Tutto era finito, ma non per loro.
La morale era sempre la stessa, u po’ retorica, vecchia, consunta come la foto che ti ho mostrato mentre ti raccontavo questa storia, ma veramente ci sono persone speciali ovunque e in ogni situazione. Non si può descrivere un popolo classificandolo per una azione, non ci si deve basare su stereotipi. Gli angeli sono ovunque, sono in ognuno di noi. Non sono purtroppo riconoscibili perché non hanno ali, non sempre sono biondi e con occhi azzurri.